Figlio d’arte in cerca dell’identità “perduta” in
Ladinia Agli studenti insegna: «Liberatevi dalla tecnica: è schiavitù»
di Paolo
Mantovan
IL TRENTINO 30 aprile 2017
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA. Ebbene sì,
Claus Soraperra teme il benessere. Mica perché non gli piace il benessere in
sé, ma perché il benessere ferma tutto. Ferma le nostre energie, la nostra
volontà, il nostro cervello. E quando pensa alla sua «Ladinia», alla sua Val di
Fassa, intrappolata nella morsa del turismo-benessere, beh, lui ci vede il
declino, la perdità di identità, anzi addirittura la perdita di senso.
Claus Soraperra, classe 1966 di Canazei,
è figlio d’arte nonché d’artista. Nato in una famiglia che si è tramandata la
passione per l’arte, ha seguito fin da piccino papà Virgilio che l’arte la
viveva come un lavoro, un mestiere, un’attività naturale. Si alzava, faceva
colazione, metteva il grembiule e iniziava a intagliare o a dipingere.
«Anche lui usciva da una famiglia di
scultori e pittori di diverse generazioni e mi ha trasmesso il fascino
dell’arte. È nato da una famiglia poverissima, che poi, uscita dalla guerra,
non ha potuto dargli la possibilità di studiare alla scuola d’arte». Che invece
Claus ha fatto: l’Istituto d’arte di Pozza di Fassa e poi l’Accademia di belle
arti a Venezia. Però, è stato con il papà che Claus ha familiarizzato con
l’arte, no? «Assolutamente. Mio padre ha avuto un grande periodo quando ha
riempito la Val di Fassa di pitture murali: erano gli anni Ottanta, il momento
in cui il turismo cominciava a fare capolino, e ci fu una grande committenza di
pitture murali che andavano a riscoprire la vita agreste, i temi di caccia, i
genitori che avevano costruito l’albergo... si mettevano cioè sul muro le
tradizioni alpine, fassane, ladine. Io ho iniziato lì, sulle impalcature con
papà». Difficile? «Tutt’altro: per me era naturale. La pittura murale su
committenza ti dà grandissima serenità: non devi indagare nella tua indole. La
pittura come ricerca è molto più emozionale: è lì che ripudio in tutto e per
tutto la tecnica».
Eccolo qui, lo spirito ribelle:
cominciamo. Lui ripudia la tecnica. «Ma è ovvio. Guardi che anche ai miei
studenti, all’Istituto d’arte di Pozza dove insegno pittura, io dico:
liberatevi dalla tecnica!».
Eppure serve la tecnica. Come diavolo si
fa senza tecnica, scusi? «Ma certo che serve. Solo che poi ti rende schiavo. La
tecnica è una trappola. Ha l’obiettivo di continuare qualcosa che non deve
essere cambiato».
Beh certo, la tecnica fissa i canoni, ti
tiene legato alla regola... «Bravo: la doratura a foglia d’oro si fa così, poi
l’altra cosa si fa colà, e poi resti lì, fermo. Trasmetti la conoscenza e
blocchi anche chi viene dopo di te». Ma non conserva la tradizione? «No perché
è solo ripetizione. E la tradizione non è mica una cosa sempre uguale». Poi ci
arriviamo, dai. «Sì. Guardi, sono un insegnante, quindi lo so benissimo che la
tecnica ha valore, ci mancherebbe. Ma bisogna impararla e presto liberarsene:
perché poi diventa aritigianato, lavoro meccanico. Quando mi metto davanti alla
tela e indago non posso fermarmi alla tecnica che mi impone di fermarmi».
Ah sì, va bene, però anche lei ha avuto
i prof all’Accademia. Le hanno insegnato a liberarsi della tecnica? «Certo! Mi
hanno insegnato a indagare. Ma c’è anche chi mi ha detto: l’artista può
cambiare il mondo! E io gli ho creduto. Che pivello». Ma come? «Gli ho creduto
per dieci anni almeno. Poi ho visto che non riuscivo a cambiare neppure me
stesso e ho deciso di guardare più semplicemente al mio mondo».
Che poi nel suo mondo, il suo piccolo
mondo come lo chiama lui, c’è anche tutto quanto il mondo. La mostra allestita
proprio adesso presso lo Spazio Alpino della Sat a Trento, in via Manci,
«Liquids - Identità fluide nelle Alpi» (qui a fianco una delle opere) spiega la
ricerca di Soraperra. Un’indagine dentro un’identità che si sta perdendo,
schiava della fiction, dello spettacolo dei costumi, e spoglia di ogni nuovo
contenuto.
Ma è da qui che si può cambiare il
mondo? Con opere che interrogano o che denunciano? Opere contemporanee,
ritenute spesso difficili da comprendere? «Cambiare il mondo no. E anche
cambiare di una virgola una piccola comunità è difficilissimo». Ma Claus ci
prova, no? Tanto che alcuni valligiani lo etichettano come “comunista”. «Ma sì,
cosa vuoi: è un modo per dire “diverso”, a volte “fastidioso”. E io sono
contento. perché vuol dire che qualcosa accade. Infatti quando espongo e faccio
incontri la sala in val di Fassa si riempie». E cosa dice Soraperra a quella
sala? «Che i Ladini si stanno fermando. Si vuole rimanere ciò che si è soltanto
perché c’è il temporaneo successo del turismo. Ma anche il benessere può essere
una trappola se non capisci che devi cambiare: il mondo gira e fra un po’
quello star bene non funziona più. Se tu non hai identità non ti riconosce più
nessuno e tu resti spaesato e disperso». Quali sono gli errori del turismo di adesso?
«Che si propone la tradizione attraverso colori e costumi tradizionali, ma
quella non è tradizione è uno spettacolo e basta: noi rischiamo di fare i
figuranti dentro un mondo finto». E quindi sotto il vestito niente? C’è solo
apparenza? «Sì, e mi chiedo: dove sta andando a finire la lingua ladina? Se
perdi la lingua non la riesci più a riesumare o rievocare. La lingua ti
permette di mantenere l’identità. Ma adesso con il turismo e con i turisti che
non hanno bisogno di questo codice, la lingua non conta più. La lingua non ha
un valore commerciale, anzi è quasi un ostacolo per il turista: meglio sapere
italiano, tedesco e soprattutto inglese. E così l’identità si perde in un abito
vuoto».
Bisogna salvare la lingua ladina,
insomma. La lingua è sostanza: è il tuo mondo. Ma un’identità costruita solo
sulla lingua rischia di divenire arma. «E infatti ora occorre avere tante
identità: averne una sola è pericoloso. Ed è sbagliato perdere quella
d’origine. Mio figlio, quindici anni, fa le “faceres”, le maschere lignee della
Val di Fassa. Le
abbiamo riscoperte».
Ora Claus torna in Valle. Le daranno
ancora del comunista? «Certo. Ma sanno che sono un prodotto locale. Sanno che
ho una storia ladina. E a volte si domandano: ma che c’avrà in mente il nostro
Claus?».
Ha in mente i colori. I colori della sua
terra. Del mondo.